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Diritto alla corresponsione dell’assegno sociale e stato di bisogno

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Con la sentenza n. 26315/2023, la Corte di Cassazione si è pronunciata sul diritto alla corresponsione dell’assegno sociale delineandone quale requisito lo stato di bisogno del titolare e la non rilevanza di eventuali altri indici di autosufficienza economica o redditi potenziali, come quelli derivanti dall'assegno di mantenimento che il titolare abbia omesso di richiedere al coniuge separato.

IL CASO

I giudici d’appello confermavano la sentenza del giudice di prime cure che aveva rigettato il ricorso volto ad ottenere l'assegno sociale promosso da Tizio, in quanto lo stesso era da ritenersi non in stato di bisogno economico, posto che aveva rinunciato ad ogni assegno di mantenimento in sede di separazione dalla moglie.

LA CENSURA

Tizio si rivolgeva alla Cassazione lamentando la violazione dell'art. 3 della Legge n. 335/1995, per non avere la corte distrettuale considerato i redditi effettivamente percepiti (e solo essi) come richiesto dalla detta norma e per aver trascurato che il coniuge era comunque incapiente.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La Cassazione dava ragione a Tizio. Gli Ermellini stabilivano che “Il diritto alla corresponsione dell'assegno sociale ex art. 3, comma 6, della l. n. 335 del 1995, prevede come unico requisito lo stato di bisogno effettivo del titolare, desunto dall'assenza di redditi o dall'insufficienza di quelli percepiti in misura inferiore al limite massimo stabilito dalla legge, restando irrilevanti eventuali altri indici di autosufficienza economica o redditi potenziali, quali quelli derivanti dall'assegno di mantenimento che il titolare abbia omesso di richiedere al coniuge separato, e senza che tale mancata richiesta possa essere equiparata all'assenza di uno stato di bisogno”. Inoltre, il diritto in questione “Prevede come unico requisito lo stato di bisogno effettivo del titolare, desunto dalla condizione oggettiva dell'assenza di redditi o dell'insufficienza di quelli percepiti in misura inferiore al limite massimo stabilito dalla legge, senza che assuma rilevanza la mancata richiesta, da parte dell'assistito, dell'importo dovuto dall'ex coniuge a titolo di assegno divorzile, non essendo previsto che lo stato di bisogno, per essere normativamente rilevante, debba essere anche incolpevole”. In virtù di ciò, la Corte Suprema accoglieva il ricorso, cassava la sentenza impugnata e rinviava la causa alla stessa corte d’appello in diversa composizione per un nuovo esame ed anche per le spese di lite.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


La procedura telematica è presupposto della validità delle dimissioni

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La Suprema Corte, con l’ordinanza n. 27331 del 26 settembre 2023, ha precisato che ai fini della validità delle dimissioni del lavoratore è necessario ricorrere esclusivamente alle modalità telematiche.

IL CASO

I giudici d’appello, confermando la sentenza del Tribunale, accertavano la legittimità delle dimissioni rese da Mevio nei confronti del suo datore di lavoro Sempronio. La Corte distrettuale, richiamando la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 3822 del 2019) emessa in materia di applicazione della regola residuale dettata dall’art. 2697 c.c. ove si controverta sulla riconducibilità, della cessazione del rapporto di lavoro, al lavoratore (dimissioni) piuttosto che al datore di lavoro (licenziamento orale), riteneva sprovvista di prova la domanda proposta dal lavoratore di accertamento di un provvedimento espulsivo del datore di lavoro.

LA CENSURA

Mevio proponeva ricorso per Cassazione deducendo, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., primo comma, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 26 del D.Lgs. 14.9.2015, n. 151 e dell’art. 2697 c.c., avendo la Corte territoriale trascurato che la fattispecie fosse disciplinata dalla norma del 2015 che impone la forma scritta alle dimissioni rese dal lavoratore.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La Cassazione dava ragione a Mevio. I giudici di legittimità sottolineavano che la fattispecie ricadeva nel campo di applicazione del D.Lgs. n. 151 del 2015. Così si esprimevano gli Ermellini: “La normativa (preceduta, nel tempo, da alcune previsioni di determinati contratti collettivi; cfr. sul punto Cass. n. 9554 del 2001, Cass. n. 5454 del 2011 e Cass. n. 29329 del 2022) che ha imposto, per le dimissioni, una determinata forma non altera la natura dell'atto di dimissioni come negozio unilaterale recettizio, ma richiede – ai fini dell’efficacia dell’atto - il rispetto di determinate forme (di natura telematica), salvo che le dimissioni (e la risoluzione consensuale) intervengano in sede assistita o avanti alla Commissione di certificazione. Tali procedure mirano a soddisfare, contestualmente, un duplice obiettivo: da un lato, conferire data certa alle dimissioni al fine di rendere impossibile il fenomeno delle dimissioni in bianco; dall'altro, fornire la garanzia che la volontà del lavoratore di risolvere il contratto di lavoro (espressa tramite le dimissioni o l'accordo di risoluzione consensuale) si sia formata e sia stata espressa liberamente e genuinamente dal lavoratore medesimo, in assenza di qualunque costrizione esercitata dal datore di lavoro”. Pertanto, il Tribunale Supremo accoglieva il ricorso di Mevio, cassando con rinvio la sentenza impugnata.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


È illegittimo sospendere il lavoratore non vaccinato

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Il Tribunale di L’Aquila, con la sentenza n. 136/2023, ha stabilito che è illegittima la sospensione inflitta al dipendente che abbia rifiutato di sottoporsi alla vaccinazione anti-Covid, non essendoci alcuna evidenza scientifica che il vaccino faccia evitare il contagio.

IL CASO

Caio agiva in giudizio per impugnare la sospensione che gli era stata inflitta per mancato rispetto dell’obbligo di vaccinazione anti Sars-CoV-2, essendo il lavoratore un soggetto ultracinquantenne.

LA PRONUNCIA DEL TRIBUNALE DI L’AQUILA

Il Tribunale di L’Aquila dava ragione a Caio. Il giudice abruzzese precisava che “Non vi è alcuna evidenza scientifica che abbia dimostrato che il vaccinato, con i prodotti attualmente in commercio, non si contagi e non contagi a sua volta. Di più, la realtà dei fatti ha dimostrato il contrario. La comune esperienza di tutti (personale, familiare, della cerchia di conoscenti) conferma il dato evidente che, allo stato, chi non si è vaccinato può infettarsi e infettare come può infettarsi e infettare chi ha ricevuto una dose, due dosi etc.. Evidenza scientifica e comune esperienza fanno assurgere tale dato nel contesto attuale - contagiosità dei vaccinati come dei non vaccinati - a fatto notorio ai sensi dell’art. 115, c.p.c. (il che esclude in radice la necessità o l’opportunità di svolgere una ctu in sede processuale)”. Dunque, per il Tribunale di L’Aquila, la sospensione del ricorrente, giustificata dal fatto che non si fosse vaccinato, era completamente priva di fondamento. Inoltre, osservava che un eventuale atto amministrativo che imponga una siffatta discriminazione, sarebbe contra legem e andrebbe disapplicato. In virtù di ciò, il giudice abruzzese accoglieva il ricorso di Caio riconoscendo l’illegittimità della sospensione che gli era stata irrogata per non aver adempiuto all’obbligo vaccinale contro il Coronavirus.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Lesione del rapporto fiduciario e licenziamento per giusta causa

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Con l’ordinanza n. 25987 del 6 settembre 2023, la Suprema Corte ha stabilito che il licenziamento per giusta causa conseguente a una condotta del lavoratore lesiva del vincolo fiduciario è un licenziamento ontologicamente disciplinare e, in quanto tale, soggiace alle garanzie dettate in favore del prestatore dal secondo e terzo comma dell'art. 7 Stat. lav. circa la contestazione dell'addebito e il diritto di difesa.

IL CASO

I giudici d’appello, in riforma della sentenza del Tribunale, con sentenza non definitiva dichiaravano l’illegittimità del licenziamento comminato a Sempronio dalla datrice di lavoro Caia, e condannavano l’appellata alla riassunzione o, in subordine, alla corresponsione di un’indennità commisurata a sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto erogata. Con sentenza definitiva, svolta CTU contabile, condannavano al pagamento in favore dell’appellante della complessiva somma di euro 32.830,76 a titolo di retribuzioni maturate e non corrisposte, tredicesima e quattordicesima mensilità, differenze paga, ferie non godute, compenso per lavoro straordinario, lavoro festivo e domenicale, festività, riposo settimanale non goduto, ROL e TFR per la durata del rapporto di lavoro subordinato intercorso fra le parti nel periodo di riferimento, oltre accessori. In particolare, la Corte territoriale: • accertava la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato dal gennaio 2008 sino alla data del licenziamento, con l’orario di lavoro ordinario e straordinario dedotti dal lavoratore; • dichiarava l’illegittimità del licenziamento disciplinare, anche alla luce dell’intervenuta assoluzione definitiva in sede penale per l’imputazione di appropriazione indebita a base del recesso datoriale; • riteneva la compensazione disposta dal Tribunale anche in violazione dell’art. 112 c.p.c., perché non vi era stata tempestiva eccezione in tal senso da parte della datrice di lavoro. Caia ricorreva per la cassazione di entrambe le sentenze lamentando, in particolare, la nullità o erroneità della sentenza parziale, per violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 c.c. e dei contratti e accordi collettivi e nazionali di lavoro. Per la ricorrente, il recesso datoriale in questione andava inquadrato nella fattispecie del licenziamento in tronco giustificato dalla grave lesione del rapporto fiduciario, e che i giudici di secondo grado avrebbero errato nel ritenere illegittimo il licenziamento per mancata preventiva contestazione dell’addebito disciplinare.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La Cassazione, nel dare torto a Caia, richiamava consolidato principio della giurisprudenza di legittimità, secondo cui “Il licenziamento per giusta causa, irrogato per una condotta tenuta dal dipendente nell'ambito del rapporto di lavoro e ritenuta dal datore di lavoro tanto scorretta da minare il vincolo fiduciario, è un licenziamento ontologicamente disciplinare, a prescindere dalla sua inclusione tra le misure disciplinari dello specifico regime del rapporto, e deve essere assoggettato, quindi, alle garanzie dettate in favore del lavoratore dal secondo e terzo comma dell'art. 7 Stat. lav. circa la contestazione dell'addebito e il diritto di difesa”. In virtù di ciò, la Suprema Corte rigettava il ricorso.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Caduta del lavoratore e onere della prova in capo al datore

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La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 25217/2023, ha affermato che il datore di lavoro ha l’onere di provare l’assenza di responsabilità in caso di caduta dalle scale del lavoratore.

IL CASO

I giudici di secondo grado respingevano l'appello di Tizia, lavoratrice domestica, avverso la sentenza del giudice di prime cure che aveva rigettato la sua domanda volta a far dichiarare che la responsabilità dell'infortunio subito mentre lavorava su una scala per rimuovere delle tende, fosse ascrivibile al datore di lavoro Caio, il quale doveva, pertanto, essere condannato a risarcirle i danni. La Corte territoriale, a fondamento della decisione, premetteva che il lavoratore che agisca per riconoscimento del risarcimento del danno per infortunio sul lavoro è tenuto a dimostrare, oltre al fatto costituente l'inadempimento, anche l'esistenza di un nesso di causalità tra l'inadempimento ed il danno alla salute patito. Altresì, rilevava, quanto alla dinamica dei fatti, che nella fattispecie la lavoratrice avesse il compito di occuparsi di lavare le tende della casa di Caio nei cambi di stagione e che per poter arrivare a sfilare le tende dagli appositi ganci era necessario salire su uno scaleo; solitamente, l'operazione veniva effettuata con l'ausilio dello stesso Caio, mentre nel caso di specie la domestica al momento del fatto aveva deciso di occuparsi da sola della rimozione delle tende dall'apposito sito, e risultava che Caio si fosse assentato temporaneamente per andare a svolgere alcune commissioni nei negozi sottostanti la sua abitazione. Dunque, secondo i giudici d’appello, mancava la prova che fosse stato Caio ad impartire a Tizia l'ordine di compiere quella operazione pur in sua assenza; inoltre, non vi era prova alcuna che lo scaleo usato non possedesse una base stabile o antiscivolamento, né certo la presenza di un tappeto sul quale lo scaleo sarebbe scivolato poteva essere addebitabile al datore di lavoro assente, potendo essere facilmente rimosso dalla domestica. La vicenda approdava in Cassazione, che dava ragione alla lavoratrice.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La Suprema Corte precisava che la responsabilità datoriale che consegue alla violazione delle norme dettate in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro ha natura contrattuale, in quanto il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge (ex art 1374 c.c.) dalla disposizione che impone l'obbligo di sicurezza che entra così a far parte del sinallagma contrattuale. Il datore di lavoro deve, dunque, rispondere degli stessi eventi lesivi occorsi al prestatore di lavoro sulla base delle regole della responsabilità contrattuale (e quindi in base alla prescrizione decennale, all'inversione dell'onere della prova e nei limiti dei danni prevedibili) e la sua responsabilità può discendere da fatti commissivi o da comportamenti omissivi. In quest’ottica occorre l’accertamento della colpa che va dimostrato secondo quanto sancito dall’art. 1218 c.c. Pertanto, secondo i giudici di legittimità, “Grava sul datore “debitore di sicurezza” l'onere di provare di aver ottemperato all'obbligo di protezione, mentre il lavoratore creditore deve provare sia la lesione all'integrità psico-fisica, sia il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l'espletamento della prestazione lavorativa”. In altri termini, mentre il lavoratore deve allegare e provare l’esistenza dell'obbligazione lavorativa, del danno ed il nesso causale di questo con la prestazione, il datore è tenuto a dimostrare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile e cioè di avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno. Nella vicenda esaminata i giudici di merito avevano invertito l’onere della prova. In virtù di ciò, il Tribunale Supremo accoglieva il ricorso di Tizia.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'